Russia – VIVERE ALLA FINE DEL MONDO

Le gelide distese ghiacciate e semideserte della Russia nordoccidentale, oltre il circolo polare artico, hanno attirato ancora una volta l’instancabile viaggiatore friulano, che ci racconta l’emozione dell’incontro con il popolo nomade di quelle terre remote ed estreme. E lancia una sfida ai fuoristradisti.

Il primo gennaio, mentre la gente è ancora a riposare dopo i bagordi del veglione di fine anno, prendo un aereo da Milano, destinazione Mosca, dove mi aspetta l’amico Andrej, compagno di tante avventure. Passiamo un giorno a pianificare tutto e poi partiamo per l’avventura che ci porterà nell’estremo nord russo, oltre il circolo polare artico, nella penisola Yamal (la fine del mondo) e nella Repubblica dei Komi, dove raggiungeremo un accampamento di Nenets, gli ultimi nomadi della tundra, allevatori di renne in una terra affascinante quanto ostile per il clima e le condizioni estreme di vita.

Il treno in due giorni ci porta a Salechard, città situata proprio sul circolo polare. Freddo e neve sono i miei compagni di viaggio, la cittadina è simpatica, con poche cose da fare e da vedere, ordinata e candida sotto uno spesso strato di neve e ghiaccio. Lenin domina la piazza, antico retaggio, i pupazzi di ghiaccio fanno la gioia dei bambini.

Quattro ristoranti, alcuni bar, le giornate sono buie per 19/20 ore al giorno… Mi preparo per attraversare il fiume Ob’, completamente ghiacciato, la calotta è spessa più di un metro. Un mezzo 4×4 chiodato ci aspetta in una fredda mattinata sotto casa, si parte, la strada ondeggia fino alle sponde, ci siamo, il fiume ci accoglie con tutta la sua simpatia, qualche Kamaz sfreccia sulla pista ghiacciata. Mi fermo a fare le foto di rito, si scivola, i locali hanno delle scarpe chiodate, scatto e scatto, la sensazione è unica. Dopo un paio d’ore, con molta calma, raggiungiamo la riva e ci dirigiamo a Labytnangi, 27 mila abitanti, sembra un paesotto abbandonato. La temperatura si fa sentire, molta umidità, tanto ghiaccio e poca gente in giro, non faccio a tempo a scattare qualche altra panoramica che la notte arriva in un batter d’occhio: è buio pesto, trovata la casa in affitto, sui 20 euro, si riposa un po’. L’indomani faccio delle passeggiate nelle poche ore di luce e acquisto il biglietto del treno, che in altri due giorni, mi porterà a Vorkuta, nella Repubblica dei Komi.

Osservo con molta attenzione che i treni hanno una puntualità svizzera nel partire e nell’arrivare. Il binario è unico, si vedono appena le rotaie, la motrice, alimentata a carbone, è attrezzata con una lama spazzaneve. Il mio vagone è del 1992, costruito nella DDR. Dopo 50 fermate circa arrivo a destinazione; buio, l’unica luce illumina la scritta Vorkuta. Ulitsa Lenina è il centro, mi sistemo qui, sempre 20 euro a notte, vietato fumare in casa, solo in terrazza, un calvario perché devi sempre vestirti per poter uscire, quindi passa la voglia… Visitata Vorkuta, che è stata sede di uno dei gulag più temuti dell’epoca di Stalin e poi un centro minerario, mi addentro nel villaggio abbandonato di Rudnik. Spettrale. Una volta era abitato dai minatori, poi per mancanza di lavoro sono tutti scappati. Emozionante la camminata tra vecchi spiriti e rumori che si sentono in questi blocchi di cemento, ma la neve copre tutto, quindi rende piacevole, si fa per dire, il panorama.

Finalmente, dopo tre giorni, troviamo un contatto con un nenets. La mattina dopo, alle 4, partiamo a bordo di una slitta a motore per un villaggio di nomadi. È un viaggio al limite, la temperatura è di meno 35°, la slitta cavalca le piste ghiacciate, il vento ti modella la faccia; difficile tenere telecamera e macchina fotografica in mano, siamo in off road puro, solo che invece del fango affrontiamo un mare di ghiaccio. La tundra è spaventosa: se succede un guasto, non funzionano telefoni o altre cose, sono perduto. Difficile vivere in queste condizioni, l’orizzonte è bianco, a nord a sud a est e a ovest non vedo niente, solo bianco, solo ghiaccio, salite e discese che mettono a dura prova la schiena. Dopo parecchie ore scorgo le cium, le tende nenets: la gioia è grande, il sogno si è avverato!

Gente gentile, ospitale e sorridente. Vita dura all’interno della tenda: una pecka, la stufa a legna, scalda la circonferenza della struttura, pelli di renna, cuscini e altro ancora non fanno passare l’aria, all’estremità la tenda è aperta per far uscire il fumo, si mangia renna e minestrone di strani licheni, spunta anche la vodka. Fuori, il buran, tempesta di vento, ci fa ricordare che siamo in mezzo alla tundra, dove il sole non scalda. Le renne ci guardano stupite, i cani ci fanno festa, tutto in 200 metri quadrati di accampamento, si parla di tutto. I Nenets raccontano la loro vita, sono allevatori e pastori di renne, ogni tanto si spostano in cerca di cibo in altre desolate vallate, un’ora per smontare la tenda, un’ora e mezza per rimontarla. Sono una popolazione indigena della Russia di origine samoieda, non si sono convertiti alla religione ortodossa, così dicono, rispettano gli spiriti e divinità ancestrali. Lo sciamano, chiamato tadibja, agisce come intermediario. Poi si sprecano le leggende, sono rimasti in 40.000 circa, ultime statistiche del 2002. E chissà se è tutto vero… Maneggiano il coltello con abilità estrema, sanno come trattare le renne, capiscono al volo se una di loro sta male, dal respiro e perché mangia poco. La renna malata viene ammazzata, la parte malata viene tolta, generalmente i polmoni, tutto il resto recuperato. Racconti della cium. Il tempo passa veloce, sembra un film, fuori il vento cancella le tracce, ci sentiamo tutti nomadi, tutti spiriti liberi.

Mi distendo su delle coperte di renna e penso ai miei dieci viaggi in questa terra siberiana. Loro la chiamano la pianura della Siberia, siamo a 500 km dagli Urali, dove inizia la Siberia, l’estremo nord oltre il circolo polare. Sono stati tutti viaggi fantastici e maledettamente difficili, ma non so come, non so perché, l’armonia che trovo in questi angoli sperduti è unica. La neve, il ghiaccio, il freddo mi danno calore, e il colore lo trovo nei volti di questi nomadi avventurieri, padroni assoluti della tundra artica, dove il giorno è scandito dalla poca luce del giorno.

Poi, una slitta mi riporta lontano da loro. Come da tradizione non mi volto per l’ultimo saluto, alzo solo un braccio. Grazie ancora, Nenets, per avermi dato un’emozione vera e un grandissimo ricordo, impossibile dimenticarvi. Dopo, il viaggio perde spessore con il ritorno a Mosca dopo tre giorni di treno. Le molte luci della metropoli non scaldano come quelle poche nella tundra…

Adalberto Buzzin, uno dei pochi “specialisti” di viaggi in Siberia, di cui è letteralmente innamorato, attraverso le pagine della nostra rivista lancia una sfida del tutto inedita ai fuoristradisti e ai veicoli 4×4 più ambiziosi: il raid Mosca-Vorkuta, in inverno! In linea d’aria sono 1.850 km, via terra circa 2.500 km. La prima metà è “soft”, la seconda davvero dura: ci si troverà praticamente nel nulla, forse qualche villaggio, qualche nomade, ma niente più. A guidare le vetture sarà una guida nenets, che conosce il territorio a memoria. La durata totale del viaggio si aggira sui 15-20 giorni, inclusi il trasferimento via asfalto fino a Mosca e ritorno. Il periodo previsto è gennaio 2019. Le vetture devono essere preparate con cura estrema per un posto estremo: slitta anteriore paracolpi, verricello, gomme con mescola “siberiana” e chiodi, diesel artico, olio tipo 0, altrimenti congela, ovviamente un riscaldatore tipo Webasto. Gli equipaggi devono essere autosufficienti al 101%. Si guida con calma, sui 30-40 km/h, anche per vivere la tundra in una certa maniera e capirla. L’arrivo è a Vorkuta, oltre il circolo polare artico, la città senza strade, isolata dal mondo. “È un viaggio difficile ma vi assicuro unico e indimenticabile. Un sogno che può diventare realtà” dice Buzzin. Se questa insolita avventura vi intriga, potete contattare Buzzin alla mail adalbertobuzzin@tin.it.

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